Nel mondo IT si fa sempre più strada il concetto di “cloud repatriation”, ovvero il rimpatrio dal cloud verso infrastrutture on-premises o private.
Da un po’ stiamo tenendo d’occhio questo trend molto discusso oltreoceano da tempo.
Da quanto è stato pubblicato sull’articolo del Sole 24 Ore Cloud, i costi in ascesa spingono le aziende verso la gestione ibrida dei dati, abbiamo iniziato a studiare le motivazioni per capirne a fondo le dinamiche.
Quali sono i motivi che spingono le aziende a tornare al modello on-promise o quando ha senso farlo?
Cloud Repatriation: il ritorno dell’on-premises come trend del 2026
Diversi studi recenti indicano che questo fenomeno sarà un macro-trend nel 2026, invertendo in parte la rotta del “tutto sul cloud” che ha caratterizzato gli ultimi anni. Secondo un’analisi di TechRadar Pro, “cloud repatriation” potrebbe diventare uno dei termini più caldi del 2026.
Non si tratta di casi isolati: un sondaggio Barclays del 2024 rileva che 83% dei CIO prevede di riportare almeno parte dei workload dal cloud a sistemi propri entro l’anno.
Allo stesso tempo IDC stima che circa l’80% delle aziende pianifichi qualche forma di “rientro” di risorse compute o storage nel breve termine.
Insomma, il pendolo che negli anni 2010 spingeva tutto verso il pubblico potrebbe ora oscillare, verso soluzioni ibride e private.

Figura 1: Percentuale di organizzazioni che hanno spostato applicazioni di produzione dal cloud pubblico a data center propri o in colocation (33% in totale). Dati del sondaggio Uptime Institute.
1. Il Cloud Repatriation è l’unica alternativa?
Secondo le analisi e i dati a disposizione, il rimpatrio totale rimane un’eccezione: un sondaggio del 2024 mostra che solo il 32,6 % delle applicazioni ospitate nel cloud pubblico viene riportata in casa, principalmente come singoli workload.
Le principali motivazioni sono le prestazioni e, in seconda battuta, la sicurezza. Tuttavia, il rimpatrio è tecnicamente e strategicamente complesso e richiede competenze interne.
2. Perché il cloud repatriation? I motivi del ritorno on-premises
Dopo oltre un decennio di strategia “cloud-first”, molte imprese hanno iniziato a chiedersi: quali workload sono davvero idonei al cloud pubblico, e quali no? Le ragioni che spingono al ritorno on-premises sono diverse e spesso concomitanti:
- Costi imprevedibili e più alti del previsto: l’economicità del cloud in molti casi non si è concretizzata. Tra costi di eccesso di capacità, fee di egress dati, storage e risorse sempre attive, le bollette cloud possono lievitare oltre le aspettative.
In un sondaggio, il 42% delle aziende che hanno rimpatriato workload indica che la spesa cloud è risultata maggiore del previsto.
Questo porta molte organizzazioni a ritenere più conveniente investire in infrastrutture proprie, con costi più prevedibili e sotto controllo diretto. - Vendor lock-in e flessibilità architetturale: costruire tutto intorno ai servizi proprietari di un cloud provider può legare le mani (lock-in) all’azienda. Aumenta il rischio se il fornitore cambia prezzi, termini o tecnologie. Molti dei lettori sanno benissimo a cosa ci riferiamo.
Tutti abbiamo ben chiara la vicenda VMware – Broadcom e seppur il fattaccio è successo in un ambito non proprio attinente a questo argomento, il caos che ha creato è stato veramente disastroso per alcune organizzazioni.
Tornare su infrastrutture proprietarie o colocation restituisce pieno controllo sul proprio stack software. Si possono scegliere liberamente strumenti open-source, cambiare pipeline DevOps, orchestrator, hypervisor, ecc., senza essere vincolati all’ecosistema di un singolo vendor. - Sovranità dei dati, privacy e compliance: affidare dati critici a cloud pubblici pone interrogativi su dove risiedano fisicamente i dati e chi vi abbia accesso.Con l’inasprirsi di normative su protezione dati (GDPR, NIS2, DORA, regolamentazioni di settore come HIPAA, PCI-DSS, etc.), le aziende temono di non poter garantire piena conformità se i dati sono ospitati da provider globali.
Alcuni hyperscaler hanno ammesso di non poter assicurare che i dati restino sempre entro confini giurisdizionali specifici. Questo ha alimentato il ritorno a soluzioni on-prem/private cloud per mantenere il controllo sui propri dati sensibili ed evitare rischi legali.
- Sicurezza e controllo: pur senza veri data breach subiti nel cloud, molte organizzazioni percepiscono l’infrastruttura on-prem come più sicura o quanto meno più consistente nella gestione.
L’uso di servizi cloud multi-tenant e strumenti proprietari eterogenei può complicare la visibilità e l’applicazione uniforme delle policy di sicurezza su ambienti ibridi. Reinternalizzare i sistemi permette di uniformare le misure di sicurezza e ridurre dipendenze da terzi per aspetti critici. - Prestazioni e latenza: per applicazioni a bassa latenza, ad alto I/O (es. database finanziari, sistemi realtime, gaming) o che richiedono hardware specializzato (GPU per AI, ecc.), il cloud pubblico può introdurre troppa variabilità e overhead.
Repatriare questi workload su hardware dedicato consente di ottenere performance più stabili e tempi di risposta minori, grazie alla prossimità fisica ai clienti e all’assenza di “noisy neighbor” tipici del cloud multi-tenant.
Va detto che il cloud pubblico resta insostituibile in alcuni scenari – ad esempio per alcuni servizi come o per start-up o progetti con carichi inizialmente imprevedibili, dove la scalabilità on-demand è vitale.
Come notava ironicamente la società di venture capital Andreessen Horowitz, esiste un “paradosso del cloud”: “saresti folle a non partire sul cloud; ma sei altrettanto folle a rimanerci per sempre”.
Molte imprese, infatti, dopo aver sfruttato il cloud per crescere rapidamente, raggiunta una certa scala rivalutano l’equilibrio tra costi e benefici, combinando il cloud con infrastrutture proprie più economiche e controllabili sul lungo periodo.

Figura 2: Principale ragione del rimpatrio dal cloud citata dalle organizzazioni. Il costo eccessivo/imprevisto è al primo posto (42% delle risposte), seguito da compliance (19%) e complessità di sviluppo in cloud (19%). Nessuno degli intervistati ha indicato un incidente di sicurezza come causa diretta.
3. Esempi di aziende che hanno abbandonato il cloud (e perché)
Negli ultimi anni sono emersi diversi casi emblematici di aziende – grandi e piccole – che hanno invertito la rotta tornando dall’infrastruttura cloud pubblica a soluzioni on-premises o ibride.
Di seguito alcuni esempi significativi (aziende grandi e famose), con le motivazioni dichiarate e i benefici ottenuti:
Azienda | Azienda | Risultati ottenuti |
---|---|---|
37signals (Basecamp/HEY | Costi cloud insostenibili per carichi stabili; complessità non ridotta rispetto on-prem | Taglio ~60% spesa cloud (da $3.2M a $1.3M/anno; risparmio stimato >$10M su 5 anni reinternalizzando servizi. Infrastruttura semplificata e maggiore controllo. |
GEICO (settore assicurativo) | Spesa cloud aumentata 2,5× in 10 anni (oltre 600 app migrate); problemi di disponibilità e lock-in tecnologico 2 | Avvio repatriation di molti workload. Implementazione di private cloud (OpenStack + Kubernetes) interno per migliorare performance e ridurre costi ricorrenti. Maggiore autonomia tecnologica |
Dropbox | Column 2 Value 3Crescente costo dello storage su cloud pubblico al crescere dei dati degli utenti |
Migrato ~90% dei dati cliente su infrastruttura ibrida proprietaria già nel 2016. Stima di $75 milioni risparmiati in due anni grazie a data center privati. Costi unitari di storage drasticamente ridotti su larga scala. |
4. Ma quindi il Public Cloud è morto?
Assolutamente NO, anzi! Negli ultimi mesi si è parlato insistentemente di un ritorno all’on premise, ma The Stack spiega che queste voci sono probabilmente esagerate.
Gartner prevede infatti che la spesa mondiale per i servizi cloud pubblici crescerà da 595,7 miliardi di dollari nel 2024 a 723,4 miliardi nel 2025, con un aumento di oltre il 20 %.
L’adozione dell’intelligenza artificiale e la diffusione di infrastrutture distribuite, cloud native e multi cloud stanno spingendo sempre più aziende a utilizzare il cloud pubblico, generando un tasso di crescita atteso del 21,5 %.
5. Quale è il futuro? Cloud ibrido: un approccio vincente e bilanciato
Dall’analisi di questi trend emerge che il futuro dell’IT enterprise sarà sempre più ibrido. Pochi, infatti, intendono rinunciare completamente al cloud pubblico; piuttosto si tratta di ottimizzare il mix di risorse.
Secondo Gartner, entro il 2027 il 90% delle organizzazioni adotterà strategie multi-cloud e ibride. Questo significa integrare in modo armonico cloud pubblici, cloud privati e infrastrutture on-premises, scegliendo di volta in volta la destinazione ottimale per ogni workload.
L’approccio ibrido viene visto come vincente perché permette di ottenere il meglio di entrambi i mondi. Da un lato, il cloud pubblico offre elasticità e servizi avanzati (es. AI, Big Data) senza investimenti iniziali elevati; dall’altro, le risorse on-prem garantiscono costi stabili, bassa latenza locale e piena sovranità.
Molte aziende, ad esempio, mantengono in cloud i carichi variabili o sperimentali, che beneficiano del pay-per-use, mentre eseguono on-premises i sistemi stabili e prevedibili, ottimizzando così il TCO complessivo.
Come sottolineano gli analisti IDC, il fenomeno del repatriation non è un “tutto o niente”: solo il 8-9% delle aziende pensa a un ritorno completo on-prem, mentre la stragrande maggioranza sta rimpatriando solo componenti specifiche (dati, backup, particolari applicazioni) all’interno di architetture ibride.
In pratica, l’architettura ibrida consente di collocare ogni workload nell’ambiente più appropriato, in base a requisiti di costo, compliance e performance, senza rinunciare alla scalabilità del cloud dove serve.
Un elemento cruciale per gestire ambienti ibridi sarà anche l’evoluzione degli strumenti di orchestrazione e gestione cross-cloud.
Gartner prevede che si diffonderanno framework di integrazione “cross-cloud” per far operare insieme risorse su cloud diversi e on-prem, soprattutto in risposta alle nuove esigenze di AI e data analytics distribuite.
In altre parole, il cloud rimane una parte fondamentale del panorama IT, ma verrà affiancato e potenziato da infrastrutture on-premises interconnesse, creando un ecosistema più resiliente e flessibile rispetto al passato.
5. Conclusioni: costi sotto controllo e strategie future
In conclusione, il cloud repatriation non va inteso come un rigetto del cloud, bensì come una maturazione delle strategie cloud aziendali.
Dopo l’entusiasmo iniziale per il “tutto sul cloud”, le imprese stanno adottando una visione più pragmatica e calibrata: mantenere nel cloud pubblico ciò che serve (e che conviene) e riportare in casa o su cloud privati ciò che risulta oneroso, rischioso o subottimale.
Il driver principale di questo cambiamento è la necessità di prevedere meglio i costi IT, server propri o soluzioni in collocazione comporta spese fisse o comunque pianificabili, in contrasto con le bollette variabili del cloud che possono riservare sorprese sgradite.
Come evidenziato, modelli on-prem/ibridi permettono di evitare costi imprevisti e gestire i budget IT con maggiore tranquillità.
Per i professionisti IT, cloud repatriation e hybrid cloud saranno dunque temi chiave nel 2025-2026. Vale la pena valutare periodicamente il cost breakdown dei propri servizi cloud e chiedersi: “Possiamo ottenere gli stessi risultati con un’infrastruttura diversa, più economica o sotto il nostro controllo?”.
In molti casi la risposta potrebbe essere sì, almeno per una parte dei workload. Prepararsi a un mondo ibrido significa investire nelle competenze e negli strumenti per gestire ambienti eterogenei, dalla migrazione inversa di dati/applicazioni fino all’automazione dell’infrastruttura on-prem.
Chi saprà trovare il giusto equilibrio tra cloud e on-premises potrà beneficiare di costi ottimizzati e allo stesso tempo della scalabilità e innovazione offerte dal cloud – il meglio di entrambi, senza compromettere il proprio business.